Buddhismo Applicato e il conflitto israelo-palestinese

da Bar Zecharya
Presentato nel 2008 alla conferenza “Buddismo Impegnato nel 21esimo Secolo”
per la celebrazione della giornata del Vesak delle Nazioni Unite, Hanoi – Vietnam

Tradotto dall’originale in lingua inglese Applied Buddhism and the Israeli Palestinian Conflict

Caro Thây, Caro Sangha,

È con umiltà che mi presento qui, alla presenza di persone che con la loro compassione e dedizione hanno toccato i cuori e le vite di tanti. Davanti alla vostra generosità, la vostra pratica e i frutti dei vostri impegni sono certamente un piccolo pesce. Però è molto meglio essere un piccolo pesce che nuota nella corrente della compassione che un piccolo pesce che frigge nella padella della rabbia.

Vi parlo come israeliano, americano, romano d’adozione, ebreo, buddista, poeta. Come musicista, studente di politica e religioni, insegnante, amico, partner, ex-marito, motociclista entusiasta; come ex-soldato della fanteria israeliana che ancora, ad oggi, sente la sua mitragliatrice come alcune persone a cui è stato amputato un arto lo sentono ancora vibrante nel loro corpo – premuta contro la spalla, odore di sudore e di grasso. Vi parlo come fratello, figlio (grazie mamma e papà), e forse un giorno padre. Vorrei condividere con voi le seguenti riflessioni sul Buddismo Applicato nel contesto mediorientale.

Potreste pensare che nella Terra Santa ci sia un conflitto tra israeliani e palestinesi. Questa non è la verità. C’è grande sofferenza, sì. La paura pervade tutto: non solamente paura di incursioni armate, di assassini, di attentati terroristici, della chiamata al servizio di riserva, o dell’annichilamento nucleare, ma anche paura dello sfruttamento, dell’insicurezza economica, paura della perdita, di non produrre abbastanza, di non essere abbastanza forte, di non essere abbastanza. Il conflitto si trova in ogni settore della società, dalle scuole al governo, al traffico assassino, alla famiglia, all’esercito; nella sfera pubblica quanto in quella privata, in quella religiosa e in quella laica. C’è violenza perpetrata contro donne e bambini, c’è abuso di potere nei luoghi di lavoro, corruzione, eccesso di negligenza e distruzione dell’ambiente naturale e umano.

“Senza parole. Migliaia di cittadini israeliani, ebrei e palestinesi, scendono in piazza in più di 25 luoghi per chiedere il cessate il fuoco e la fine dell’occupazione. Sappiamo che lottare insieme è l’unico modo per vincere.”

Tutta questa violenza è il risultato di confusione, percezioni erronee e punti di vista errati. La sofferenza è grande, ma se interpretiamo erroneamente la sofferenza come il risultato di un conflitto tra due nazioni, ignoreremmo le vere cause che ne stanno alla radice e non faremmo che perpetuarle. Usando lo strumento buddista del guardare in profondità il vuoto di un sé separato, possiamo vedere una realtà diversa: noi israeliani e palestinesi possiamo non essere uguali, ma non siamo neanche diversi. Siamo uniti nella nostra paura, legati dalla nostra rabbia, connessi intimamente dalla nostra inabilità ad ascoltare con un cuore aperto, e identici nella nozione erronea che la nostra sofferenza è il risultato di un conflitto nazionale.

Per favore, non unitevi a noi.

Questo non significa che non ci siano macchine da guerra, attacchi suicidi, checkpoint o minacce per la vita, ma guardando in profondità la realtà possiamo vedere che la guerra fisica non è che un riflesso di quella nei nostri cuori, un tentativo di controllare la nostra sofferenza proiettandola in un nemico esterno chiaramente identificabile. Nascondere la realtà più profonda della nostra sofferenza e delle sue cause, mascherarla con una storia a due personaggi, significa perpetuare una grave ingiustizia e rendere impossibile qualsiasi vera trasformazione.

Sono dell’avviso che capire la dimensione più profonda della sofferenza in Terra Santa sia già in sé una forma di buddismo applicato. Che passi concreti possiamo fare per alleggerire la sofferenza?

Il primo passo, come sempre, è proteggere noi stessi e coltivare la compassione. Che tu viva nel Sud-Est Asiatico, in Europa o in qualunque altro luogo di questo pianeta che così generosamente provvede alla nostra sopravvivenza, vedrai spesso in televisione immagini di conflitti politici. Se rispondiamo a queste immagini dal giudizio, riducendo l’infinita rete di cause sociali, politico-istituzionali, familiari e psicologiche allo schema semplicistico di due parti, una vittima ed una aggressore, innaffiamo i semi del giudizio in noi stessi. Rabbia ed odio non necessitano di alcun permesso speciale o passaporto per passare attraverso una postazione di controllo o un muro di cemento ed altrettanto facilmente possono passare attraverso i nostri cuori. Se fortifichiamo i semi del giudizio, della rabbia e dell’odio, i loro frutti si faranno strada in tutti gli aspetti della nostra vita e danneggeranno le relazioni con tutti coloro che ci circondano. I vostri partner, i vostri figli, i vostri genitori e tutti coloro che amate vi sono preziosi: sarebbe davvero un peccato se la nostra confusione e malessere portassero anche ad un solo momento di disaccordo o disarmonia nella vostra famiglia e nella vostra comunità.

La stessa trasmissione televisiva può essere abbracciata con compassione e comprensione profonda. Pensate a qualcuno che lancia un razzo Qassam contro un centro abitato in Israele: essere un militante non è la sua unica realtà. Nessuno è solo un militante. Può essere militante, figlio, fratello, artista, studente, e cosi via, incluso l’essere vittima delle numerose cause a vari livelli che lo portano a credere che uccidere sia la soluzione alla sua sofferenza o a quella di coloro che ama. Nessuno è neanche soltanto un soldato. La verità di un soldato è egualmente complessa, la cui confusione e azioni possono esser viste come il risultato di molte cause, profonde ed estese, di cui lui stesso, il suo comandante e il suo generale sono vittime. Se fossero in grado di guardare più in profondità sarebbero in grado di agire differentemente.

Per favore, amici, per voi stessi e per la vostra felicità, prendete questa riflessione come una meditazione sulla non-dualità, sull’assenza di forma e sull’interessere, per sviluppare la compassione, per coloro tra noi che non hanno ancora imparato a farlo. Darete un meraviglioso esempio di non-giudizio ai vostri figli, che saranno poi in grado di arricchire le loro vite e quelle dei loro cari con compassione e comprensione. Così potrete trasformare il lancio di un razzo o un’incursione militare in amore, e l’ignoranza nell’insegnamento del Dharma. Sono convinto che questa pratica porterà più gioia nella vostra vita, e che questo sia motivo sufficiente per praticarla.

“Rifiutiamo di essere nemiche”

Rimuovere l’ostacolo di una visione dualistica presenta su larga scala anche molte opportunità per il Buddismo Applicato. Così come la paura si trova in tutti i settori della società, anche le opportunità vi si trovano. Noi medio orientali faremmo bene ad imparare ad apprezzare le molteplici condizioni di gioia e felicità già presenti nel qui ed ora. Questo include le amicizie che già abbiamo, i nostri figli, la natura spettacolare che ci circonda, e la gioia che possiamo trovare ritornando al miracolo del nostro respiro. Alcune di queste condizioni sono anche gli innumerevoli progetti di pace e di sviluppo grazie alla dedizione e alla generosità di individui in Palestina, in Israele e di tutto il mondo. Qualunque sia la vostra area di competenza, dal lavoro sociale alla sanità, dall’agricoltura all’ambiente, dall’arte alla cultura allo sport e così via, credo che ogni contributo possa dar sollievo alla sofferenza e lentamente innaffiare i semi della gioia, se dato dopo aver personalmente approfondito la pratica della compassione, del non-giudizio e della non-dualità. Senza questa pratica temo che qualsiasi sforzo contribuirà soltanto, sfortunatamente, ad aumentare la sofferenza. I progetti che hanno per obiettivo la convivenza sono da sostenere, ma concentrandosi unicamente sulla convivenza a mio avviso si rischia di enfatizzare uno dei fattori derivanti dalle cause sotterranee. Compassione, ascolto profondo e parola amorevole possono essere praticati ad ogni livello della società e in qualsiasi lingua.

Se il Buddismo Applicato è la pratica della libertà, vorrei offrire una breve preghiera per la libertà.

Libertà dalla paura, dalla rabbia, dalla confusione; dalla guerra, dall’incertezza, dall’inquinamento ambientale; dallo sfruttamento, dalla violenza domestica, dagli incidenti stradali e dalla povertà.

Libertà di espressione, di parola e di silenzio, libertà di vivere con dignità e con mezzi economici sufficienti, libertà di sentire la gioia di essere vivi, e libertà di amare.

Grazie.

[Mi è stata posta una domanda:]

Come può il Buddismo Impegnato risolvere il conflitto nell’Asia Occidentale (Medio Oriente)?

Questa è difficile! La prima risposta che ho è che preferire una soluzione politica ad un’altra, dal nostro punto di vista esterno al Medio Oriente, vuol dire praticare l’attaccamento ad un’idea, mentre la nostra pratica come buddisti è il non-attaccamento alle idee. Se scegliessimo una particolare soluzione politica, praticheremmo soltanto il giudizio e l’inabilità di ascoltare e innaffieremmo quei semi in noi e negli altri. Quello di cui abbiamo veramente bisogno per avere un qualsiasi effetto positivo è esattamente il contrario. Abbiamo bisogno di praticare l’abilità di ascoltare senza giudizio, così che i semi dell’amore, per quanto piccoli possano essere, siano innaffiati. Innanzitutto dobbiamo fare questa pratica nei nostri cuori e nella nostra vita quotidiana. In secondo luogo, possiamo sostenere progetti in Israele e nella Palestina a qualsiasi livello della società: la famiglia, il governo, l’istruzione, ecc, che comporta l’ascolto profondo e l’uso della parola amorevole. Infine, potremmo riunire Israeliani, Palestinesi o entrambi, persone con potere decisionale o semplici cittadini, perché semplicemente si ascoltino a vicenda e trasformino la loro sofferenza. Questo è l’unico sforzo che credo possa avere un qualsiasi effetto positivo.

“Arabi ed ebrei. Fermiamo insieme il conflitto.”

Bar Zecharya

custode del centro di pratica Pardesa e insegnante di Dharma, si impegna a coltivare la presenza mentale e la meditazione applicata da venticinque anni, e per più di quindici anni ha facilitato gruppi in Italia, Israele e Palestina. È allievo laico del maestro zen Thich Nhat Hanh, da cui è stato ordinato nel 2010 come membro dell’Ordine dell’Interessere. Nel 2022 riceve dalla comunità internazionale di Plum Village la Trasmissione della Lampada, diventando così insegnante in questa tradizione. Bar è laureato in Storia delle Religioni (Ohio State University) ed è dottore di ricerca in Scienze Politiche (La Sapienza).

2 risposte a “Buddhismo Applicato e il conflitto israelo-palestinese”

    1. Cara Rossella, grazie per questa tua condivisione. Che i nostri cuori continuino a spezzarsi, oltre i pensieri, oltre le nostre difese mentali, oltre la discriminazione, finché il nostro pianto possa accogliere ogni essere

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